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THE PHARAONS ENDURO ART PROJECT
PERCOLAZIONE. Storia di una goccia d'olio
Scultura-installazione: legno, catrame, filo nylon, sabbia, cm 132 x 227.
Le azioni dell’uomo lasciano un segno. Alcune si trasformano in energia, altre in oggetti tangibili. L’arte può stare in mezzo e registrare entrambi gli esiti, sollevando questioni e poesia sulle ragioni di azioni, energie, cose. La storia di una goccia d’olio sta lì: tra la storia della pittura – la macchia che crea il disegno, il volume, la forma – e il senso della storia dell’uomo – la sua presenza nel mondo della natura.
(La percolazione è il passaggio lento di un liquido dall’alto verso il basso attraverso una massa filtrante solida: traduzione letterale dell’azione artistica di Maggia).
DUNA. Traccia vergine
Scultura: polistirene, resina epox, vernice inox, laser, cm 200 x 120 x h 78.
Il deserto non ha direzione, ma infinite tracce di vita in assenza di uomo.
Maggia ne solca una: è il segno del suo passaggio effimero in un tempo, in un luogo.
L’artificio di questo passaggio inevitabilmente umano trova nei materiali la forma del proprio senso: l’inox, lucido-liscio-rifrangente; il laser, un fascio di luce coerente concentrato in un raggio rettilineo estremamente collimato. La brillanza è il risultato della traccia anche su distanze lunghissime. Nell’eterna ricerca della purezza anche nel contatto tra le cose.
GIARDINO di SPECCHI. Ricordando le selve
Installazione: sabbia, cartoncino, telo di sopravvivenza, cm 173 x 144 h 42.
L’oasi non è solo miraggio, specchio d’allodola che acceca con una vibrante trasparenza il viandante assetato. È anche eco di vita passata: fruscio di piante, scroscio d’acqua, vociare conviviale. Un paradiso perduto in miniatura: palme-stelle e vegetali-monoliti connessi da onde sabbiose che ricordano gli ammonìti di epoche remote, Cefalopodi fossili dal guscio a spirale. Le tracce effimere sono i segni di un alfabeto naturale che ha la terra per vocabolario.
5 15’15’’. Sospensione
Fotografia su specchio sublimato: cornice in legno, luce neon, cm 140 x 180.
5 15’15” è il tempo – ore, minuti, secondi – impiegato per attraversare 386 km di dune in moto. La fotografia arresta in un fermo immagine la caduta di una noce di cocco: è la velocità senza tempo che attira la mano di Maggia allo scatto della sospensione. Il tentativo utopico – e perciò così umano – di essere nel punto in cui la coscienza e l’emozione formano l’origine dell’intuizione. Lo spazio-tempo della luce che coincide con il riflesso delle tenebre (il non visibile, il caos, il caso). L’aspetto spaziale della Natura.
BETA 450 RR
Utilizzata per la performance. Contiene il kit di sopravvivenza: bussola, telo anticalore, razzo, torcia, specchi tondi da segnalazione, 3 lt. Acqua.
TUTA+CASCO. Against body warming
Scultura-installazione: nomex antifiamma rivestito di alluminio, resine epox, vernice inox.
L’esperienza del Rally dei Faraoni è nata da una doppia esigenza: la spinta vitale della competizione e quella ideale della performance artistica. I mezzi per compierla riflettono entrambe le forze: il fare (la direzione programmata che implica il calcolo e l’istintività della sopravvivenza) e la contemplazione (l’ascolto). Maggia ha brevettato una divisa che è funzionale ed estetica: rispecchia la sua identità differenziandola dal resto dei gareggianti consentendo una forte riduzione del calore corporeo e della fatica celebrale.
PAPIRO. Geroglifico contemporaneo
Installazione: Roadbook Rally dei Faraoni, Cyperus papyrus, supporto metallico, cm 25 x 25 h 240.
Il Roadbook è il diario di viaggio, il simbolo dell’avventura di Maggia in Egitto. Porta in sé il percorso ideale, trascritto in segni da decifrare per riconoscere un inizio e una fine. Nel dialogo con i papiri egiziani, i geroglifici contemporanei evocano l’intreccio indissolubile tra interpretazione e approssimazione. Nell’uniformità del paesaggio (il deserto come metafora di vita), il linguaggio serve a definire una via; ma al di fuori di essa, per orientarsi nell’infinita vastità del mondo, tutto è possibile. Maggia: “hai la strada indicata davanti, ma se non vedi il punto in cui ti trovi non vai da nessuna parte”.
ANDIAMO ANDANDO
Installazione: bussola, specchio, meccanismo elettro-magnetico, cm 76 x 96 h 12.
“La potenza è nulla senza la direzione”, afferma Maggia riflettendo sulle sue azioni competitive, sulla sua ricerca artistica. “Andiamo andando”, sussurra lo scrittore Biamonti. Bel contrasto per dire che l’incerto è la bussola.
LETTO di OSIRIS. I miei amici nell'aldilà mi accompagnano
Installazione: legno, vetro, semi orzo, cm 56 x 56 x 12.
Fin dagli esordi, Maggia lavora con materiali organici. Il Letto di Osiris è al tempo stesso un esito inevitabile del suo linguaggio poetico e un omaggio alla storia millenaria dell’Egitto. Concentrato a cavalcare dune e resistere all’arsura del deserto, liberata la mente da ogni altra distrazione, Maggia ascolta. La storia di Osiride, Dio della rinascita, e la storia dei suoi avi s’incontrano in quella concentrazione mirata all’azione. Il riferimento all’antica usanza di seminare l’orzo (simbolo della sepoltura d’Osiride) per vederlo rigermogliare (la rinascita nell’aldilà), diventano il simbolo della forza rigeneratrice della natura di cui l’uomo è parte.
PISTONE. L’uomo (e/è) la macchina
Fotografia su specchio sublimato: cornice in legno, luce neon, cm 140 x 180
Maggia si distende nella stessa posizione di Oppenheim in Reading position for a 2nd Degree Burn (1970), entrambi scelgono per sfondo la sabbia. Al posto del libro (non c’è bisogno di scrittura quando l’esperienza è vita), compare il pistone della moto. Metafora senza veli, Maggia è alla ricerca di una simbiosi uomo-macchina. Il corpo, terreno di sperimentazioni e azioni artistiche, è strumento essenziale di qualsiasi esperienza, che diventa performance quando la vita è al servizio della creatività.
FRATTALE VISIVO MOLLE
Scultura-installazione: 25 moduli specchio acrilico, corda, cm 130 x 188.
Il frattale visivo è per Maggia un modo di riflettere sul mondo. Lo specchio, espediente dell’artista per copiare, deformare, deviare la realtà, è combinato in moduli ripetuti come la struttura geometrica scoperta da Mandelbrot nel 1975. Il frazionamento, l’auto-similarità si piegano alla disponibilità di una forma molle, capace di accettare qualsiasi entità su cui si poggia. Il parallelo con la natura, che riproduce esempi di forme simili ai frattali e la scultura-installazione di Maggia è esponenziale: l’inglobamento della natura attraverso la riflessione dello specchio è infinito.
a. FRATTALE VISIVO MOLLE, fotografia, cm 70 x 90, cornice acciaio ossidato
b. FRATTALE VISIVO MOLLE, fotografia, cm 70 x 90, cornice acciaio ossidato
c. FRATTALE VISIVO MOLLE, fotografia, cm 70 x 90, cornice acciaio ossidato
d. FRATTALE VISIVO MOLLE, fotografia, cm 70 x 90, cornice acciaio ossidato
e. FRATTALE VISIVO MOLLE, fotografia, cm 70 x 90, cornice acciaio ossidato
f. FRATTALE VISIVO MOLLE, fotografia, cm 70 x 90, cornice acciaio ossidato
g. FRATTALE VISIVO MOLLE, fotografia, cm 70 x 90, cornice acciaio ossidato
MASCHERA. Partiamo sempre con dei dubbi
Scultura: maschera da cross su casco cromato con radiografia del polso destro,
luce intermittente.
La maschera che copre gli occhi, accessorio indispensabile dell’endurista, è uno strumento essenziale per ripararsi dalla luce accecante o dai venti di sabbia e polvere. Nella performance estrema di Maggia, diventa la metafora perfetta del cominciamento: l’inizio del viaggio di cui nulla si può prevedere benché tutto il possibile si sia preparato. Specchio ambivalente, coprente e trasparente, opaco e riflettente, la maschera nasconde ed esplicita la personalità di chi l’indossa. I limiti del proprio fisico coincidono per Maggia con i dubbi della propria psiche.
DUNA d’IMMONDIZIA “Oggi non ci sono scuse – è bello non barare… Oggi ci chiediamo perché un rally nel deserto che produce inquinamento d’aria, acustico, turistico può permettersi un artista che riflette sulla spazzatura”.
Installazione: immondizia egiziana, sabbia, video.
Resti di oggetti adoperati, finiti, usati, non più utili; packaging, confezioni, contenitori; cibi non consumati, marci, e acque bevute. Restano plastiche, etichette, scatole, sacchetti, attrezzi, carte. Resti organici o chimici, scorie degradabili o non estinguibili. Immondizie deperibili o inquinanti, prodotti creati dall’uomo (al 99%) o coltivati nella natura per esser consumati dall’uomo.
Qui, sotto la duna di sabbia fine.
PERFORMANCE BY ARTIST CARLO MARIA MAGGIA
PROGETTO: The Pharaons Enduro Art Performance
LUOGO: Egitto
DATE: 5-11 Ottobre 2008 Performance in Egitto. 5-30 Novembre mostra a Torino
SOSTEGNO: Ikebò Torino, Contemporary Arts Torino Piemonte, Exibart, Fondazione Museo delle antichita' egizie di Torino
UFFICIO STAMPA: Emanuela Bernascone
CONFERENZA STAMPA: 20 Settembre durante il prologo in Piazza Vittorio
Veneto a Torino e dalle 21 al Circolo Esperia solo su invito.
INFO: www.carlomariamaggia.it; www.ikebo.it; www.jvd.it; www.emanuelebernascone.com
L'EVENTO
Il nuovo evento preparato dall'artista Carlo Maria Maggia è questa volta un'operazione estrema.
Come molte delle performance storiche, il tema di tale evento verterà sul concetto di limite. Tuttavia, il contesto e la posta in gioco sono assolutamente inediti. Teatro della performance sarà l'edizione 2008 del "Rally dei Faraoni" (5-11 ottobre): 3000 chilometri divisi in sette prove speciali da percorrere con un Beta 450 del Team Boano Rancing, insieme ad altri 200 piloti provenienti da tutto il mondo (professionisti e non). Si tratta di una competizione estremamente dura, in cui i piloti devono compiere 400/600 chilometri al giorno nel minor tempo possibile. Oltre 500 persone, tra meccanici, tecnici (forniti di elicotteri e mezzi speciali), staff organizzativo, giornalisti, appassionati, ecc. seguono l'evento in diretta.
LA PERFORMANCE
Oltre all'aspetto competitivo, che necessita di un allenamento e una preparazione meticolosi ed assidui, Carlo Maria Maggia aumenta la posta in gioco e propone una performance artistica.
Durante la competizione, l'artista sarà vestito di una tuta speciale, specchiante, elemento che lo differenzia dagli altri partecipanti al Rally e che idenfica la sua più recente ricerca (si veda la serie delle sculture "Frattali"). Al termine di ogni tappa, la scommessa consisterà nel creare un'opera con gli elementi reperiti in loco, secondo il pensiero della Land Art e Arte ambientale che caratterizzano da sempre il suo operato. Lo scopo risiede nel riflettere tramite il campo della creatività artistica sulla condizione di limite, inteso come esiguità di materiali che il contesto offre, condizioni psicologiche estreme e tempistiche rigide (qualche ora al giorno prima di concedersi poche ore di sonno e ripartire all'alba). Il tempo trascorso nella solitudine del deserto, le emozioni (l'eccitazione e la paura, l'apprensione e l'entusiamo, l'instabilità psicologica e la perseveranza dell'impegno), lo sforzo fisico estenuante, l'imprevedibilità degli eventi costituiranno le basi con cui creare un oggetto o una mini performance che riflettano il coacervo di elementi interni insiti nell'artista in tale contesto.
COMUNICAZIONE
The Pharaons Enduro Art Performance e’ stato patrocinato da Contemporary Arts Torino Piemonte. Sostenuto dalla neonata galleria d'arte Ikebò Torino, Carlo Maria Maggia esporrà le opere create durante il Rally dei Faraoni in un evento dal 5 al 30 novembre nella galleria omonima che ha sede in piazza Cavour 2 Torino.
Detto evento inaugura il 5 novembre e fara’ parte delle mostre della Torino Art Galleries durante l’edizione di Artissima 2008.
Durante la competizione, grazie ad una connessione satellitare, le immagini delle opere realizzate saranno pubblicate sui siti www.carlomariamaggia.it e www.ikebo.it, mentre la rivista Exibart seguirà quotidianamente l'evento attraverso la voce della curatrice Emanuela Genesio.
PROLOGO
Oggi, domenica 5 ottobre, l’artista Carlo Maria Maggia dà inizio alla sua performance estrema in Egitto. Noi lo seguiamo giorno per giorno, immobili alla nostra postazione casalinga, in trepida attesa dei messaggi trasmessi via satellite alla fine di ogni tappa, ad opera creata. Sarà un viaggio anche il nostro: un’improvvisazione sul tema del limite e della possibilità, della soglia che separa e unisce l’arte alla competizione, la meditazione dalla contemplazione e il fare dal lasciarsi portare.
Prima di partire, in un vibrante incontro, l’artista ha lasciato trasparire i contrasti che lo abitano da quando ha deciso di sottoporsi a questa prova così impegnativa e importante. Nelle emozioni che trapelavano dai suoi gesti e dalle sue parole, la differenza tra la carica vitale (una sorta di caparbia incoscienza) e l’inquietudine intellettuale, tra l’eccitazione quasi infantile del viaggio e il dubbio chiaro (gli spilli acuti ma assunti di chi sa a cosa va incontro) non c’era differenza. Abbiamo parlato a lungo, una sorta di “backstage critico”, nel quale annotavo con la maggior precisione possibile, i termini che comparivano a definire un progetto in cui la linea di separazione tra arte e vita perde di consistenza. Le emozioni sono parte di quel progetto, ne motivano la ragione, così come potrebbero divenire il soggetto unico, ultimo scopo non designabile razionalmente, ma perfettamente coincidente con la vita. Fino al fondo: un pericoloso mettersi in gioco che ha per posta il sopravvivere.
Dice Maggia: “in quelle condizioni, al cospetto del deserto e dei propri limiti, qualsiasi preparazione, premeditazione o allenamento, potrebbe non servire, non portare a nulla”. Perciò la sua prima opera, il prologo, si vuole come uno specchio ambivalente, coprente e trasparente, opaco e riflettente. La maschera che copre gli occhi, accessorio indispensabile per poter vedere il cammino anche alla luce accecante o nei venti di sabbia e polvere, diventa metafora perfetta per iniziare un viaggio di cui nulla si può prevedere benché tutto il possibile si sia preparato. Omero era cieco. Dante, salito al bagliori del paradiso dopo la notte dei gironi infernali, rimane folgorato da una visione abbagliante. I poeti di tutti i tempi hanno giocato sulla metafora della visione per approssimarsi all’invisibile. Maggia reitera la riflessione che fu di chi si spinge oltre e pone una radiografia del suo corpo davanti ai suoi occhi. La fatica eccessiva degli allenamenti, gli ha posto problemi fisici; lui li ha accettati e quindi trasformati in creazione programmatica. Nel riconoscimento dei propri limiti, la delusione sarà meno bruciante, così come la soddisfazione, il valico dell’ostacolo prima insormontabile, più brillante.
Come buon auspicio, versi fulminei di Ungaretti:
“L’incarnato del cielo sveglia oasi nel nomade d’amore”.
testo di Emanuela Genesio
6 ottobre - PARTIRE
Poche saranno le parole di questo partire. Poche le mie: per dar spazio all’entusiasmo di chi ha appena assaporato l’eccitazione dell’inizio. Di chi ancora non sa bene di cosa è fatta quella partenza e se gli intenti, le promesse, le attese saranno soltanto proiezioni inconsistenti o tempo di progetti e quindi di vita.
Tutto è nuovo; tanti degli artisti del primo Nocevento ad esigerlo: “rivedere – vedere per la prima volta – il mondo con gli occhi di un bambino”. Lo spiazzamento del contesto, l’altrove che diventa quotidiano senz’esser ordinario, è parte di quel nuovo. Specialmente per chi, come Maggia, ha sempre lavorato attraverso uno dei principi della Land Art: prendere in prestito dal mondo ciò che il mondo ti offre. L’organico non prevale per ora; la relazione con le origini (l’originario che lega l’uomo al pianeta) esiste in questa prima tappa nell’incontro con le persone. I bambini attorno al “Frattale molle”, seduti in cerchio o saltellanti in giochi vorticosi, sono l’incontro con la terra ospitante. Loro accolgono, mentre gli elementi naturali sono impermeabili a qualsiasi corpo estraneo. Rinviano polvere, pietre, luce. “la tappa era molto dura, velocissima, fondo di pietre e a tratti le prime dune. Le dune di sabbia sono magiche, se vai piano affondi, se vai forte galleggi, il motore sforza molto, e poi all’improvviso ti trovi un precipizio dove non puoi esitare con il gas, altrimenti ti insabbi e uscire son dolori... (oggi 2 volte...)”.
Prima di partire, Maggia aveva saggiamente programmato un possibile inizio creativo: con sé la traduzione “da viaggio” di una delle sue opere più riuscite, il “Frattale”, per l’occasione divenuto “Frattale molle”. Con questa struttura di specchi modulabile e modellabile, ha cominciato a tastare il terreno semplicemente poggiandola sulle asperità rocciose e sabbiose, tra sacchi di spazzatura o in mezzo alla vastità composta di aria e luce del deserto. La riflessione sullo specchio (nelle due accezioni che il termine consente) è iterata dalla sua divisa: di uno speciale tessuto anticalore, ignifugo e riflettente, la tuta gli ha permesso da subito di segnalare la propria identità e di dichiarare la propria diversità di fronte al gruppo di compagni che gareggiano per gareggiare, nello spirito della competizione sportiva: “il materiale riflettente è stato un’invenzione geniale, dopo 380 km non ero sudato malgrado i 50 gradi! Chissà perché nessuno ci ha mai pensato... mi guardano tutti come un marziano e mi hanno soprannominato domopack!”.
Questa prima tappa è dunque un sentire. Perciò lasciamo che a chiuderla siano le parole sentite di chi ha vissuto:
“Oggi il mio battesimo del deserto è andato veramente bene.
Sono partito con molte paure e con un autoapprendimento forzatamente live con il mezzo, gli strumenti elettronici (quattro e veramente complicati, dei geroglifici elettronici) e dopo 380 km sono arrivato 53° assoluto su 90 partiti... al sospirato traguardo con molto male al polso ma felicissimo.
È stata una ecatombe: piloti svenuti, incidenti, cadute, compagni che non sai chi sono ma in quel momento sono fratelli di sangue; che guardi solo ai 100 all'ora con la moto che salta da tutte le parti attraverso il riflesso degli occhiali, dove un colore, un dettaglio ti sembra un dna”.
“È però un vero orgasmo prolungato: parli con le pietre, i canali di sabbia molle che si formano e ti fanno sbandare, con le pietre, con i salti, con la moto, con l'acqua […]. Altra cosa pazzesca la quantità di colori che ci sono: la sabbia è un arcobaleno! Si potrebbe dipingere usando solo colori e consistenze della sabbia, veramente spettacolare”.
Da qui, il possibile inizio della riflessione e dello spettacolo: emozioni che potrebbero lasciar trasparire la creatività, dando vita a manifestazioni di vitalità artistica.
A domani.
testo di Emanuela Genesio
7 ottobre - ANDANDO_PUNTATA CRITICA
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Oggi, 7 ottobre 2008, vorrei usare con dolcezza le parole di Francesco Biamonti,in Vento largo: “andiamo andando”. Ma non posso. Pensare che il mondo va come sono sempre andati i suoi passeurs tra i valichi alpini. Senza sprechi, asciutti. Non citare la spazzatura, le coperture (psicologiche, geologiche, politiche), i disastri ecologici del consumismo. Vorrei pensare non a un mondo slow, ma al piacere del camminare andando, coscienti del mondo che ci passa attorno perché coscienti di esserne parte. “La filosofia è nata in cammino” si legge sulla quarta di copertina del libro di Duccio Demetrio Filosofia del camminare. Come dire che il pensiero è nato nella contemplazione attiva del vivere: “lo stupore, che è il punto di partenza del pensatore, non è né sconcerto, né sorpresa, né perplessità: è uno stupore che ammira” (Hannah Arendt). Eppure, proprio oggi, non posso. Questa puntata per me è critica; critica nel senso filosofico del termine e non estetico. Critica perché pone un problema che concerne il giudizio attraverso la ragione. Il luogo in cui si prende coscienza dei propri limiti e possibilità. Il mio, oggi, è di non saper giudicare, restare nella contraddizione che il mondo pone. Restare nella contraddizione ponendo semplicemente il problema.
Oggi Maggia ha lavorato sulla spazzatura: resti di oggetti adoperati, finiti, usati, non più utili; packaging, confezioni, contenitori; cibi non consumati, marci, e acque bevute. Restano plastiche, etichette, scatole, sacchetti, attrezzi, carte. Resti organici o chimici, scorie degradabili o non estinguibili. Immondizie deperibili o inquinanti, prodotti creati dall’uomo (al 99%) o coltivati nella natura per esser consumati dall’uomo. Non so se l’immagine da lui inviata corrisponda alla spazzatura prodotta da una sola persona – se stesso – oppure se si tratti di un campione universale che non ha carta d’identità. Il dubbio si complica nel considerare la seconda immagine della puntata: una montagnola di sabbia polverosa della dimensione della spazzatura. Si tratta dei rifiuti tossici dissimulati dalla terra? Oppure è una finzione narrativa e quella montagnola è semplicemente terra? Nel primo caso il dubbio s’infittirebbe ulteriormente, poiché da sempre uno dei filoni su cui Maggia lavora verte sulla creazione di opere che si dissolvono nella natura seguendone i tempi lenti. (Ha riflettuto sui suoi meccanismi e su come l’uomo li riproduca esteticamente. Ha sostenuto la ricerca dell’armonia tra l’uomo e il mondo offrendo il proprio impegno con istituzioni come il WWF). Difficile pensare che quel gesto potrebbe significare una rivendicazione sociale, oppure una riflessione sull’estetica dello scarto o del rottame (come diversi artisti, dalle avanguardie in poi, hanno fatto, ma come Maggia non ha fatto finora). Allora quale il significato di questo gesto? Quale il ragionamento alla base di un’azione che di primo acchito non ci pare estetica, sociale, o autobiografica?
“L’artista, si sa, è figura inutile; è colui che porta l’utopia, il desiderio, il sogno, il gioco, la beffa”, afferma Lea Vergine in un libro che cade a pennello, Quando i rifiuti diventano arte. Già… ma oggi non ci sono scuse – è bello non barare –; oggi ci chiediamo perché un rally nel deserto che produce inquinamento d’aria, acustico, turistico può permettersi un artista che riflette sulla spazzatura.
In attesa di spiegazioni da chi ha creato, nel cammino del nostro viaggio al di qua delle piramidi, ascoltiamo ancora una volta le parole del passeur di San Biagio della Cima:
“O Varì, dove vai con quel passo?
Andiamo andando”.
bis - Postilla di Andando
Attraverso i nostri contatti satellitari, mi giunge una sintetica precisazione circa l’azione della terza puntata della performance di Carlo Maria Maggia: “il lavoro di ieri con la spazzatura rappresenta la quantità d’immondizia che si trova nei luoghi più sperduti. Ho anche girato un video dove la ricopro simbolicamente con la pala”. Ci saranno dunque questioni da affrontare nei termini posti dal mio intervento. Resta alta e intonsa la domanda di chiusura: perché un rally nel deserto che produce inquinamento d’aria, acustico, turistico può permettersi un artista che riflette sulla spazzatura?
testo di Emanuela Genesio
8 ottobre - AL PASSATO
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Le civiltà sepolte producono ombre che sono riflessi della velocità della luce, tempi cosmici spinti così avanti che tornano a noi come ombre della luce. Sta a noi, uomini di oggi, trovare l’alfabeto per decifrarne la forma. Un segno-significato sensitivo dell’ombra-luce.
Nei favolosi eppur documentaristici racconti di Civiltà Sepolte, C.W. Ceram ricorda che la letteratura dell’interpretazione, l’ermeneutica, è un’arte straordinariamente sofisticata e appassionante. Facendone uso, archeologi e amatori dell’arte antica s’immergono in ipotesi inventive e deduzioni filologiche che possono approdare a scoperte di nuovi vocabolari o a inestinguibili dubbi gnoseologici. Spesso, dice Ceram, di fronte agli oggetti che tornano alla luce dopo migliaia di anni la prima volta, “l’archeologo si trova armato solo di vanga e di perspicacia”. È allora, nel regno dello sconosciuto, che ci si può concedere il lusso di giocare con i metodi critici dell’interpretazione e, nei casi più fortunati, scovare un nuovo mondo, dare avvio a una “grande scoperta dello spirito”. Tuttavia, sebbene “raramente la soluzione sopraggiunga con la rapidità del fulmine”, l’illuminazione per “applicazione e fantasia”, spontaneità e dedizione può condurre a regni fantastici, luoghi in cui i segni appaiono comprensibili perché condivisi dai sensi e immediatamente adeguati al proprio essere. Questo, forse, uno dei significati e valori dell’arte di tutti i tempi.
Per ascoltare il mondo di 10.000 anni fa, per trovare quella luce che illumina dal passato sottoforma di ombra, Maggia ritaglia in questa quarta puntata figure bidimensionali che originano un’oasi in miniatura. Palme-stelle e vegetali-monoliti collegati da onde sabbiose che ricordano gli ammonìti di epoche remote, Cefalopodi fossili dal guscio a spirale. Le ombre che sorreggono le silhouettes argentate paiono più solide e plastiche della pseudo-scultura e disegnano tracce inconsistenti (nella materia e nel effimero della loro fugace esistenza) che potrebbero comporre un alfabeto geroglifico.
Questo sarà il gioco che proporremo all’artista: la creazione di nuovo vocabolario a partire dai segni lasciati dagli agenti del deserto: il vento, il sole, la luce stellata della notte, i riverberi accecanti di sabbie dai toni caldi, brucianti. A noi, in seguito, il divertimento d’inventare un sistema per decifrarne il senso.
testo di Emanuela Genesio
9 ottobre - SOSPENSIONE
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“L’opera di oggi s’intitola 5.15.15 e corrisponde in ore, minuti e secondi al tempo odierno per attraversare 386 km di dune”.
L’opera di oggi è una storia alla prima persona.
Sono una noce di cocco che cade.
Resto nel luogo dove sono nata, fino al limite delle mie possibilità fisiche,al limite delle forze che mi reggono e su cui cresco (peso, gravità, massa, volume).
Sono al limite massimo, al punto di non ritorno della mia maturità organica.
Ho sfruttato tutte le possibilità del mio essere vitale.
Al climax, mi sento lanciato a tutta velocità verso un destino aperto. Di viaggio, di caduta libera, di cambiamento, di approdo.
Capita a tutti, a tutto, da quando nasciamo.
Redatta a due mani, questa nota biografica resta sospesa in aria (da approfondire) pur essendo probabilmente la descrizione della prima opera compiuta della performance. “Sospesa” è una fotografia che sintetizza bene il percorso artistico di Maggia: la precisione tecnico-cronografica che gli proviene dagli studi di botanica (per esempio i titoli dei “Frattali” coincidono con la latitudine e longitudine del luogo in cui sono posizionati), il carattere effimero del contenuto riletto in chiave autobiografica e la predilezione per il confronto in diretta con il contesto con cui la sua persona si trova ad interagire. “Sospesa” diventerà probabilmente una fotografia “sublimata”, processo che dà vita ad un oggetto ibrido descritto in questi termini dallo stesso autore: “uno specchio speciale resistente alle alte temperature, viene sabbiato nella parte posteriore. Ricoperto quindi di una speciale gelatina si trasforma, in condizioni di sottovuoto e ad alte temperature, dallo stato solido a quello gassoso, penetrando per alcuni micron nella porosità del vetro. Si ottiene così un monolite riflettente che interagisce con l’esterno. Il vetro rappresenta la fragilità degli elementi naturali che compaiono come soggetto. La trasparenza permette all’opera di vivere con il ciclo naturale del giorno e della notte, mutando in ogni istante il suo aspetto estetico”.
Non si può tacere sull’attrazione implicita tra il mezzo fotografico e il concetto di sospensione. Dal latino suspensione, interruzione, il termine obbliga a riflettere sulla rottura dell’arresto. Non come fine: un arresto che ha in sé l’infinitezza del possibile: la fine (il nulla, l’ignoto, l’infinito?), la ripresa (continuità), la deviazione (scarto, sincope, sorpresa). Non c’è compimento nella sospensione: c’è apnea, tregua, intervallo. Perciò la fotografia funziona. Funziona intesa come avventura del possibile con cui è evocata da Barthes nel suo celebre La chambre claire: “il principio d’avventura mi consente di fare esistere la Fotografia. Inversamente, senza fotografia, nessuna foto. Cito Sartre: “le foto di un giornale possono assolutamente non dirmi niente, cioè: io le guardo senza posizionarmi esistenzialmente verso di loro […]. La fotografia è vagamente costituita come un oggetto, e i personaggi che vi figurano costituiscono sì dei personaggi, ma solo in ragione della loro rassomiglianza con l’essere umano, senza intenzionalità particolare. Fluttuano tra il litorale della percezione, quello del segno e quello dell’immagine, senza mai approdare ad alcuno di essi”. Come dire che la fotografia è un mezzo di sospensione. Che può esser una fine, che può essere un inizio. E che aleggia tra regni ontologici di diversa natura.
E intanto Carlo veleggia sulle dune compiendo agonisticamente risultati straordinari… Noi restiamo ad aspettare il ritorno con il fiato sospeso.
testo di Emanuela Genesio
10 ottobre - VIAGGIARE, METAFORA LETTERALE
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Dall’ “Automobile Tire Prints” (1953) di Robert Rauschenberg, ai copertoni sparsi da Allan Kaprow in un chiostro newyorkese per l’happening “Yard” (1961), passando per le compressioni di César (oggi visibili in una bella antologica alla Fondation Cartier di Parigi), fino alle recenti performance motociclistiche di Aaron Young (New York 2007, Mosca 2008 e ora a Pozzuoli), oggetti e segni relativi all’universo motociclistico hanno fatto capolino nel sistema dell’arte contemporanea. Maggia, che s’inserisce a pieno in questo filone (se mai di “filone” si può parlare) ha dalla sua il contesto. I suoi papiri non sono un vezzo, una trovata per un romanzo alla “Codice da Vinci”, sono semplicemente strumenti. Il “Road Book” è un rotolo di carta in un tubo avvitato al manubrio della moto che fornisce indicazioni stradali e preziose mappe. Benché il nome ci catapulti direttamente alla poetica della Beat Generation di Kerouac, le parole di Maggia non lasciano dubbi sulla funzionalità del marchingegno e la relatività della suggestione estetica (sebbene sia forte e chiara):
“È una specie di papiro, lunghissimo… contiene indicazioni indecifrabili per un non addetto, indispensabili per noi per orientarsi nel paesaggio uniforme del deserto.
I simboli sembrano dei geroglifici, ma sono in realtà delle “note”, le cifre di un linguaggio internazionale codificato. Compare anche il chilometraggio che è parziale e progressivo.
Il problema è che, seppur disponendo di “Road Book”, l' “Iritrack” (una sorta di computer che registra tutti i dati collegandosi al satellite per le posizioni gps) e il “Trip Master” (che comandi tu e ti dice i km percorsi e devi continuamente correggere per tarare con i passaggi reali del Road Book), se non sai esattamente dove sei...tutti questi marchingegni non servono a nulla...sei perso! Hai la strada indicata davanti a te ma se non sai il punto esatto in cui ti trovi non vai da nessuna parte...”.
“Automobile Tire Prints” di Rauschenberg era un’opera “letterale”: 7 metri d’impronta di pneumatico tracciata su carta. L’automobile che l’aveva prodotta era una Ford Model A guidata da John Cage, docente in quella fucina di talenti che fu il Black Mountain College nel North Carolina dalla seconda metà degli anni Cinquanta. Letterale perché per quella generazione d’artisti in America il viaggio fu l’opera. “Il mio scopo non è di arrivare in un posto preciso, mi basta il viaggio”, affermò a questo proposito John Cage. La performance di Maggia prende una piega diversa. Il viaggio è competizione creativa. Il segno sulla carta è informazione sportiva, poi ispirazione disciplinata e, soprattutto, mezzo di sopravvivenza. Sono lontane, per ora, le suggestioni del pensiero orientale, in cui il decorso dell’azione è inserito in un flusso vitale che è più un lasciar fare che un fare per una finalità.
Quasi mi pare appropriato, osservando la bella foto di oggi, proporre il confronto con alcune pitture medievali. Le banderuole su cui comparivano le iscrizioni sacre dei polittici stavano in aria formando oggetti dalla rigidità simile a lastre metalliche bidimensionali. Così mi appare il papiro in foto: un oggetto scultoreo sostenuto da fili invisibili in uno spazio vuoto (chiedo venia a Maggia per la cancellazione della sua persona…). Le iscrizioni medievali erano portatrici di messaggi dall’alto: preziose indicazioni per l’uomo in terra inviate da Dio come veicolo della sua parola. Una parola-guida. Adeguato, per una gara motociclistica; tanto più che Maggia stesso si è abbandonato in questa quinta puntata ad una punta di melensa moralità… (ma qualche concessione, dopo tutti quei chilometri e quella fatica…): “pianifichiamo i nostri percorsi mentalmente, ma non sappiamo a quale svolta siamo della nostra vita... Ogni prova speciale della gara, lunga o corta che sia, è come percorrere un pezzo di vita”.
testo di Emanuela Genesio
11 ottobre - RIFLETTENDO A MACCHIA D'OLIO
Victor Hugo non usava l’inchiostro soltanto per scrivere. O meglio: non l’usava soltanto per tracciare segni di un alfabeto di lettere. Dipingeva macchie. Chine scure di nero e seppia rialzate da toni chiari ottenuti con acquerello e matite. Mondi immaginari colorati brulicanti di forme fantastiche a volte “oggettivate” dall’inserimento di materiali più disparati: da merletti a fondi di caffè. Erano le tracce pulsanti di vita del suo subconscio, molto prima di quello ufficializzato da Breton, e con maggior intimità e senso del narrativo di gran parte del gruppo dei surrealisti degli anni Venti.
In realtà, la macchia è una poetica che attraversa i tempi e i luoghi senza distinzione di sorta, dall’Occidente all’Oriente. Senza perdersi (a macchia d’olio) in congetture di matrice orientale che pure ci attraggono fortemente, e restare in ambito europeo, è indubbiamente la Francia dell’immediato dopoguerra che propone un “tachisme” sistematizzato e di altissimi livelli. Materico con Fautrier e Dubuffet, segnico con Soulages e Wols, colorato e disegnato con Michaux e Sam Francis (perché anche al di là dell’Oceano la macchia dilagò…), l’informità della macchia si è aperta al gesto pittorico fino a confondersi con la figura del disegno.
Le riflessioni cambiano direzione se oltre al risultato pittorico si pensa all’addizione di un corpo. Non il corpo della pittura, ma il corpo dell’esperienza pittorica: corpo-oggetto/corpo-umano. Cos’è l’oggetto rispetto alla macchia? Cos’è il corpo dell’uomo rispetto alla macchia? “Gli oggetti – scrive Jean Baudrillard – non esauriscono il loro senso nella materialità e funzione pratica. La loro diffusione secondo le finalità della produzione, […] il loro assoggettarsi alle richieste versatili della moda: tutto ciò non deve nasconderci che gli oggetti tendono a costituirsi in un sistema coerente di segni”. Dennis Oppenheim, nel 1970, rimane cinque ore al sole guadagnando un’ustione di secondo grado e una macchia bianca sul torace. “Reading position for a 2nd Degree Burn” non è soltanto una meditazione esperienziale sul valore del corpo come “foglio” su cui scrivere la propria arte, ma anche sul valore che la macchia riveste nel rapporto tra le diverse consistenze delle cose: il corpo umano, l’oggetto (il libro che ha generato l’ombra bianca), l’aria e il sole.
Maggia si distende nella stessa posizione di Oppenheim, entrambi scelgono per sfondo la sabbia. Al posto del libro “Tactis” (titolo non casuale), compare il pistone della moto. Metafora senza veli, Maggia è alla ricerca di una simbiosi uomo-macchina. L’idea rinvia dunque all’uomo-scultura (la Living Sculpture che eccita – e a tratti immobilizza in pose ben poco vitali – alcuni studenti della St. Martin School of Art a partire dal 1969), terreno di sperimentazioni e azioni che confondono più o meno coscientemente la macchina del corpo con la macchia della pittura.
Questa fotografia è correlata da altre due: insieme formano un corpus per un’opera da assemblare a Torino per la mostra che coronerà l’avventura egiziana. I concetti portanti ruoteranno appunto attorno alla riflessione sulla consistenza delle cose e il loro incontrarsi attraverso il passaggio di materiali. Dalla macchia d’olio alla scultura creata da una percolazione. Non diciamo altro per non svelare la sorpresa di un progetto che promette bene.
Tanto bene quanto è grande la sorpresa di scoprirsi sportivi ai più alti livelli: “forse dovevo fare il pilota… Oggi 5° di classe e 31° assoluto! Ho davanti solo piloti professionisti…”
testo di Emanuela Genesio
12 ottobre - ARRIVANDO
spesso non ci sono parole per una fine narrata,
tranne il silenzio,
perché sempre il gerundio risponde al corso del tempo.
Un'immagine, spazio-tempo in un'unica visione,
può raccontare il dettaglio del tutto.
A presto a Carlo e a tutti coloro che ci hanno seguiti
per un epilogo degno di un'avventura senza precendenti.
testo di Emanuela Genesio
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